domenica 3 novembre 2013

Videointervista di Contusu.it sulla Tomba dei Giganti di Quartu S. Elena

Con grande piacere riproponiamo la scoperta della Tomba dei Giganti di Niu Crobu (ribattezzata poi "Sa Tumba Cuada de Niu Crobu" o più semplicemente "Niu Crobu Cuada") scoperta da Alessandro Atzeni e Sandro Garau nel comune di Quartu S. Elena. Tramite questa video intervista vorremmo sensibilizzare il pubblico, nonché il comune di Quartu dell'impellente necessità di attivare delle campagne di scavo presso i suoi monumenti più importanti (come questa tomba) e di attuare una valorizzazione efficace affinché i nostri monumenti Nuragici (ben 40) possano essere fruiti dal pubblico. I complimenti vanno sopratutto al sito di www.contusu.it e ai suoi mitici admin per la costanza con cui portano avanti la loro piattaforma web, uno dei migliori siti di informazione sulla storia, la cultura, le tradizioni e l'archeologia della Sardegna.



lunedì 28 ottobre 2013

Svelato il mistero del collasso dell'età del Bronzo?


Cosa successe 3.200 anni fa sulle rive orientali del Mediterraneo?
"In pochissimo tempo, l'intero mondo dell'Età del Bronzo crollò", racconta Israel Finkelstein, archeologo dell'Università di Tel Aviv. "L'impero ittita, l'Egitto dei faraoni, la civiltà micenea in Grecia, il regno di Cipro, celebre per la produzione del rame, la grande città-mercato di Ugarit, sulla costa siriana, le città-Stato cananite, sotto l'egemonia egiziana: tutte queste civiltà scomparvero, e solo dopo qualche tempo furono rimpiazzate dai regni territoriali dell'Età del Ferro, come quelli di Israele e di Giuda".
Il mistero fa discutere gli scienziati da decenni. Si è pensato a guerre, pestilenze, disastri naturali improvvisi. Ora Finkelstein e i suoi colleghi ritengono di aver trovato una soluzione studiando particelle di polline estratti dai sedimenti estratti sul fondo del lago di Tiberiade (o mar di Galilea). A mettere in crisi quelle civiltà fu la siccità, anzi una serie di gravi periodi di siccità succedutisi nell'arco di 150 anni, tra il 1250 e il 1100 a.C. circa.
L'équipe ha preso in esame campioni di sedimenti depositati sul fondo del lago nel corso degli ultimi 9.000 anni, ed estratti grazie a carotaggi fino a 18 metri di profondità.
Le "impronte digitali" delle piante
"Ci siamo concentrati sull'intervallo di tempo tra il 3200 a.C. e il 500 a.C.", spiega Dafna Langgut, palinologa (ossia studiosa di antichi pollini) dell'Università di Tel Aviv e autrice, assieme a Finkelstein e al geologo dell'Università Thomas Litt, dello studio, pubblicato questa settimana sulla rivista Tel Aviv: Journal of the Institute of Archaeology of Tel Aviv University.
Studiando campioni di polline prelevati da strati di sedimenti depositati a intervalli di un quarantina d'anni, gli scienziati sono riusciti a ricostruire i cambiamenti avvenuti nella vegetazione. "I granelli di polline sono le 'impronte digitali' delle piante", dice Langgut. "Sono utilissimi per ricostruire le condizioni della vegetazione e del clima nell'antichità".
Intorno al 1250 a.C., gli scienziati hanno notato un netto calo della presenza di querce, pini e carrubi, la tradizionale flora del Mediterraneo durante l'Età del Bronzo, e un aumento delle piante che si trovano di solito in regioni semiaride. Si notava anche una grossa diminuzione degli ulivi, segno di una crisi dell'agricoltura. Tutto insomma faceva pensare che la regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate.
Carestie e tumulti
Gli anni fondamentali per il crollo, prosegue Finkelstein, furono probabilmente quelli tra il 1185 e il 1130 a.C., ma si trattò di un processo che avvenne su un arco di tempo abbastanza lungo. "Secondo me il cambiamento climatico può essere considerato una sorta di scintilla che diede il via a una serie di eventi a catena. Ad esempio, il crollo dei raccolti costrinse alcuni gruppi che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in cerca di cibo, magari scacciando altre comunità che a loro volta si spostarono per terra e per mare. Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e mise in crisi il delicato sistema commerciale del Mediterraneo orientale.
Le conclusioni raggiunte dagli scienziati, anche grazie alla datazione al radiocarbonio, coincidono quasi alla perfezione con i pochi resoconti storici del periodo, che appunto narrano di carestie, interruzioni delle rotte commerciali, tumulti, saccheggi e guerre per impadronirsi delle scarse risorse. La tarda Età del Bronzo fu anche il periodo in cui bande di predoni, detti "Popoli del mare" cominciarono a razziare le coste della regione.

La crisi finì solo con il ritorno delle piogge, quando le comunità costrette al nomadismo dalla fame poterono tornare stanziali.

Articolo originale su www.nationalgeographic.it

venerdì 4 ottobre 2013

L'ossidiana del Monte Arci (Sardegna) sin in Spagna!

Seis peças de obsidiana usadas por homens pré-históricos “viajaram” 1200 km há 6000 anos

LUSA 02/10/2013 - 15:12



Pedaços da rocha vulcânica, usada para fabricar ferramentas, foram transportadas, no Neolítico, da ilha da Sardenha até Barcelona.

Resultados divulgados esta quarta-feira por uma equipa investigadores do Conselho Superior de Investigações Científicas (CSIC) espanhol revelam que seis peças de obsidiana – uma rocha vulcânica negra e vidrada – encontradas em antigos túmulos na zona de Barcelona provêm, na realidade, do maciço vulcânico de Monte Arci, na ilha de Sardenha.

“Trata-se da máxima distância documentada até à data no transporte desta matéria-prima, uma rocha usada para elaborar ferramentas no Mediterrâneo Ocidental, durante o Neolítico”, refere o CSIC em comunicado.

As seis peças analisadas -- cinco folhas e uma matriz, a massa de matéria da que se extraíram as folhas -- teriam, segundo os investigadores, mais relação com o prestígio social dos seus donos do que com o fim para o que foram elaboradas, já que foram depositadas em túmulos individuais.

“O estudo das impressões de desgaste dos restos demonstra a sua utilização em actividades quotidianas, de modo que não se trata de oferendas funerárias”, explicam ainda os investigadores. “No entanto, a rareza desta matéria-prima no contexto geográfico estudado e a provável inacessibilidade a estes produtos da maior parte da sociedade conferem-lhes uma exclusividade específica”, explica Xavier Terradas, um dos autores do estudo publicado no na revista Journal of Archaeological Science.

Os seis fragmentos analisados provêm de cinco túmulos localizados na província de Barcelona: Can Tiana (Ripollet), Bòbila Madurell (Sant Quirze do Vallès), Can Gambús (Sabadell), Minas de Gavà e La Serreta (Villafranca de Penedès).

Os investigadores utilizaram fluorescência de raios X e uma outra técnica, conhecida por A-ICP-MS (Laser Ablation Inductively Coupled Plasma Mass Spectrometry), que permite analisar a ‘impressão digital’ química da peça e compará-la com o seu local de origem. “Este tipo de vidro vulcânico negro foi profusamente explorado durante o Neolítico. Os restos que analisámos percorreram mais de 1200 quilómetros e foram transportados por terra para á dos Pirenéus, já que é improvável uma navegação em mar aberto”, explica o cientista.

Segundo o CSIC, estes grupos neolíticos chegaram a participar em verdadeiras redes de intercâmbio de materiais, produtos e ideias mediante a difusão de produtos locais, como os ornamentos corporais elaborados com variscita das minas de Gavà ou o sal de Cardona (Barcelona). Ao mesmo tempo, recebiam produtos de fora, como os elaborados com sílex de origem provençal, machados de procedência alpina, ou artefactos talhados de obsidiana.

“Todos estes restos são singulares pela rareza das matérias com as que foram elaborados, procedentes de locais situados a centenas de quilómetros de distância e que provavelmente não estavam ao alcance de toda a população”, diz aindaTerradas. “Fica claro que estamos perante uma série de produções artesanais especializadas, com um objectivo claramente dirigido para o intercâmbio, cujo alcance se manifesta ao longo de um vasto território europeu”, conclui.


Os restos analisados no estudo serão expostos a partir de 18 de novembro na Residência dos Investigadores, em Barcelona.

sabato 27 aprile 2013

Il Tempio di Giove a Bidonì




Il sito archeologico di Bidonì

Il Tempio di Giove, un'occasione persa

La Provincia di Oristano annovera una concentrazione di siti archeologici di prima importanza, come il porto di Tharros e le terme di Fordongianus. La romanizzazione del territorio ha lasciato tracce indelebili, che ancor oggi si impongono all'attenzione di tutti nella loro maestosità. Si aggiungano i siti archeologici pre-romani, come il nuraghe Losa o il pozzo sacro di Santa Cristina. Con il mare, le risorse enogastronomiche e il folklore (Sartiglia, Ardia, etc.) e con un adeguato sistema di trasporti, il patrimonio archeologico locale potrebbe divenire il polo di attrazione di un'offerta turistica di qualità.

Un esempio significativo è il tempio romano di Bidonì. Nei pressi dell'Omodeo, sulle pendici del Monte Onnarìu, la Romanità ci ha lasciato questo splendido esempio di architettura religiosa, probabilmente risalente al I secolo a.C.

L'iscrizione "Iovis" sull'altare testimonia che il tempio era dedicato a Giove, forse associato nella devozione popolare a preesistenti divinità locali.

L'area, scoperta nel 1996 da Armando Saba di Allai e già studiata da Raimondo Zucca, è ancora oggi chiusa al pubblico. La riapertura del sito potrebbe contribuire alla riscoperta di un momento storico, quello dell'incontro tra Romano-Italici e popolazioni autoctone, che è all'origine dell'identità etnica e culturale del territorio. In più potrebbe favorire lo sviluppo di una collaterale offerta alberghiera, enogastronomica e artigianale. In un momento di crisi come quello attuale, la valorizzazione del tempio romano di Bidonì è un'opportunità che le autorità statali e locali competenti devono assolutamente cogliere per il rilancio culturale, economico e sociale dell'alto Oristanese.

Articolo di Luca Cancelliere

Fonte: L'Unione Sarda", 21/04/2012

martedì 9 aprile 2013

L'oscura vicenda dei Giganti di Monte Prama

Ci sono in quei Giganti dei malanni un po' inquietanti...
Mercoledì, 31 ottobre 2012 - 10:36:00

di Fabio Isman

È raro trovare in un solo oggetto, o gruppo, la sintesi di tanti tra i malanni che, da sempre, affliggono i beni culturali in Italia; ma i Giganti sardi di Mont’e Prama ne racchiudono parecchi, e quindi servono da esempio: costituiscono (anche) una cartina di tornasole. Iniziamo da che cosa sono: forse, le più antiche sculture a tutto tondo nell’intero Mediterraneo, dopo quelle egizie; potrebbero essere addirittura precedenti ai “kouroi” greci; la loro nascita è misteriosa: c’è chi li data perfino al X-IX secolo a.C., quantunque probabilmente risalgano all’VIII. Sono un complesso senza pari, anche per l’entità: ritrovati cinquemiladuecento frammenti, dieci tonnellate di peso, che, ricomposti, hanno ridato vita (è il caso di dirlo) a venticinque statue tra guerrieri, arcieri e pugili, in arenaria e alti circa due metri, con alcuni modelli di nuraghe; recuperati quindici teste e ventidue busti. E ora, continuiamo con il resto, partendo dal ritrovamento. Siamo verso Cabras, a marzo 1974, vicino a Sinis (è sbagliato, siamo propriamente nel Sinis) ; arando un terreno, i contadini Sisinnio Poddi e Battista Meli urtano in qualcosa di strano. Spaventati, danno l’allarme. Intervengono i massimi archeologi sardi, Enrico Atzeni e Giovanni Lilliu (un Guerriero è perfino la copertina del suo libro La civiltà nuragica, 1982): la scoperta parte da qui. Ma i contadini aspettano ancora il premio di rinvenimento. Il primo malanno è la dimenticanza dei secoli; il secondo, quella delle istituzioni; e poi, c’è l’incuria. Ogni anno i frammenti venivano accantonati; e ogni anno, ci si accorgeva che il mucchio era più esiguo: forse qualcuno portava via le pietre, magari per usarle come materiale da costruzione.

Vengono subito organizzate campagne di scavo tra il 1975 e il 1979; le ultime, dirette da Carlo Tronchetti. Il bendiddio che, si è detto, era vicino a trentatre tombe a pozzetto affiancate, senza corredi funerari tranne un misterioso scarabeo egizio. I reperti sono trasportati al museo di Cagliari; e lì giaceranno per trentadue anni (è il secondo malanno), incredibilmente dimenticati. La maggiore scoperta sarda (e non solo) del dopoguerra è rimossa, nascosta, per nulla accudita: appena poche parti esposte nel museo del capoluogo, o prestate a qualche mostra. Se ne riparla finalmente nel 2007: a Sassari, al centro regionale di Li Punti, iniziano quattro anni di difficile, coraggioso, mirabolante restauro. Le opere, ricomposte, dal novembre 2011 vi sono esposte per la prima volta nella loro interezza. Chi le vuole del VII secolo a.C., chi le crede precedenti; chi le immagina in un santuario, chi le pensa dei giganti a guardia di una tomba principesca, mai trovata; intere, o in frammenti, decine di statue che restano misteriose, in un luogo, da sempre, tra i più densi di storia e di passato di tutta l’isola. Mont’e Prama significa monte Palma: monte anche se il rilievo è di cinquanta metri; la palma è quella nana, un tempo tipica della zona. Non lontano, è stato ipotizzato un santuario, un “heroon” dell’VIII secolo a.C., luogo funebre dedicato agli eroi; e la penisola del Sinis, su cui è prosperata la fenicia Tharros, è vicinissima, già abitata seimila anni or sono. Era un’importante area economica e commerciale, testa di ponte verso la penisola iberica: milletrecento anni avanti Cristo vi approdano i micenei e i filistei; è un grande centro della civiltà nuragica, iniziata tra il 1600 e il 1200 a.C., e certamente terminata prima del 700 a.C.: centosei monumenti di questo tipo nei dintorni, uno per chilometro quadrato, «sessantadue monotorre, trentasei più complessi, otto non definiti», dice l’ex soprintendente di Cagliari, Vincenzo Santoni. Per alcuni, i Giganti si possono identificare con i mitici Sherden, “popolo del mare” di allora, in qualche modo collegabili a uno tra i miti della fondazione dell’isola, colonizzata da Iolao con cinquanta Tespiadi: con un tempio in suo onore, di cui tante fonti parlano, dallo Pseudo-Aristotele, a Diodoro Siculo, Pausania e Silio Italico.

Nelle tombe, c’erano resti maschili e femminili, dai tredici ai cinquant’anni, una sepoltura per pozzetto. I Giganti sono successivi alle inumazioni. Hanno sopracciglia e naso assai marcati, sul viso triangolare; i grandi occhi sono due cerchi concentrici incisi; le bocche delle fessure, talora ad angolo. Sono tutti in piedi, con le gambe leggermente divaricate; poggiano su basi quadrangolari. Sul corpo hanno motivi geometrici incisi: linee parallele e a zig zag, cerchi concentrici; le trecce a rilievo, con motivi a spina di pesce. Forse, erano dipinti: un arciere reca ancora tracce di rosso. Ardui i confronti: li dice orientalizzanti Tronchetti, e nota richiami all’Etruria arcaica; Lilliu sottolinea i parallelismi con i bronzetti sardi; altri si spinge fino ai piceni e ai dauni. Che siano semplicemente un unicum, un “hapax” senza emuli noti? I pugili hanno uno strumento di difesa, che avvolgeva l’avambraccio; sono evidenziati ombelico e capezzoli, e portano un gonnellino: giochi sacri in onore del defunto? È il braccio destro a essere rivestito da una guaina; il sinistro è alzato e tiene alto uno scudo. Ci sono più varianti nei cinque arcieri ricostruiti: tunica corta e placca pettorale quadrangolare; gambali; arma imbracciata; faretra sulle spalle; almeno uno, ha un fodero di spada. Due i guerrieri con scudo tondo (ma ci sono altri pezzi di rotelle); l’elmo, cornuto, è talora zoomorfo. Cinque infine i modelli di nuraghi complessi, costituiti da più elementi, e venti quelli semplici; se ne vedono i terrazzi, sulle torri una cupola conica, sono alti fino a un metro e mezzo. Scavati pure dei “betili” (dall’ebraico “casa del dio”), pietre sacre prive di raffigurazioni, se non per quelle di porte e spesso due finestre incavate: Lilliu ci vedeva gli occhi di una divinità a protezione della tomba. Era un messaggio intimidatorio rivolto ai fenici, sbarcati sulla costa nell’VIII secolo? Qualcuno, però, crede di riconoscere mani orientali nella bottega scultorea.

Come avete capito, i Giganti di Mont’e Prama devono rispondere ancora a infinite domande: «La ricerca archeologica sul sito che ha restituito le statue ha da percorrere un lungo e appassionante cammino», dice il rettore dell’Università di Sassari, Attilio Mastino. Ma che costituiscano un complesso fondamentale, non c’è dubbio: anche il soprintendente di Cagliari, Marco Minoja, spiega: «Statue e sepolcri sembrano parti di un unico programma, teso a esaltare la grandezza e la potenza di un’aristocrazia in armi». E l’archeologo Marcello Madau: «Mont’e Prama e i suoi “kolossoi” sono un episodio chiave della storia dell’arte mondiale»; cinquemila pezzi, scaricati in età antica e probabilmente punica da chi distrusse il santuario, sopra una necropoli nuragica; «in quel periodo, i cartaginesi intervengono drasticamente sulla fenicia Tharros, dissacrandone i segni: ne diedi notizia nel 1991, dopo una scavo nell’area del “tofet”, il santuario». La discarica, certifica Tronchetti dai dati dei suoi scavi, non è avvenuta prima del finire del IV secolo a.C.: «Lo dice un frammento di anfora punica rinvenuto sotto un torso di statua». Restaurare non è stato semplice: i frammenti distesi su quattrocento metri quadrati; la pulitura; la ricerca degli attacchi; il modo per rimetterle in piedi. Alcune statue sono sufficientemente complete per capire; in altre, soccorre la ripetitività. Il Pugilatore è analogo a un bronzetto ritrovato verso Dorgali: Mont’e Prama ne ha restituiti sedici, con il loro scudo ricurvo rettangolare poggiato sulla testa; anche le loro parti inferiori del corpo sono scolpite in modo essenziale, e assai più dettagliata è invece la parte superiore. Più complessi i cinque Arcieri; forse, i tipi di arco sono due, il più grande poggiato su una spalla; la mano sinistra è rivestita da uno spesso guanto. Il più raffinato è il Guerriero, armato di uno scudo rotondo: alcuni elementi, in un primo tempo, erano stati attribuiti ad altre tipologie di Giganti. Ci sono poi i modelli di nuraghe; in tutta l’isola, Mont’e Prama è il contesto che ne ha restituiti di più: fino a cinquanta porzioni delle parti sommitali, parapetti, terrazze, torri; alcuni hanno un diametro di sessanta centimetri.

Ma ora si vuole separare questo “unicum”, ed è il penultimo tra i malanni che lo affliggono. Si prevede di esporre un nuraghe e una statua per tipo a Cagliari; il resto, vicino al sito del ritrovamento; a Li Punti, invece, la documentazione del restauro. A Cabras, però, il museo che dovrebbe ospitarli – ed ecco l’ultimo malanno – ancora non esiste. Per ora, dopo l’esposizione a Sassari, i Giganti sono tornati invisibili: sono in un laboratorio, per i rilievi fotogrammetrici, le scansioni digitali da cui trarre, magari, copie od olografie. Ma poi, dove finiranno? Parte, si è deciso, a Cagliari; ma il resto, di nuovo in un deposito, magari per altri trent’anni? Non solo: anche questa “diaspora” genera inquietudine e proteste. Un appello con mille firme autorevoli, a cominciare dall’archeologo Mario Torelli, è sul tavolo del ministro Ornaghi; Salvatore Settis ritiene «che il gruppo, decisamente, non debba essere smembrato», anche perché «la moltiplicazione delle sedi museali è tra le ragioni per cui i musei in tutto il mondo, diventati troppi, cominciano a chiudere, senza molti vantaggi né per le opere né per gli utenti». «Chiediamo di destinare, per le esigenze proprie di un museo come quello nazionale di Cagliari, copie a regola d’arte: di tutto il complesso», dice l’appello; intanto, l’unica certezza è che una rappresentanza dei Giganti stava per partire per le Olimpiadi di Londra e l’Esposizione universale in Corea: all’ultimo, per fortuna, non è accaduto, perché, si sa, i capolavori italiani viaggiano, addirittura troppo. Qualcuno raccoglierà il grido di dolore, o, una volta di più, le esigenze dello spettacolo trionferanno su quelle scientifiche?

Tratto dal numero di novembre della rivista Art e Dossier

venerdì 22 febbraio 2013

I Ballatoi dei Nuraghi secondo Pittau


Ballatoi terminali e modellini di nuraghi mai esistiti

Creato il 17 febbraio 2013 da Rosebudgiornalismo
di Massimo Pittau. Nel quadro generale di assurdità e di ridicolaggini relative alla civiltà nuragica tracciato da alcuni archeologi, ad iniziare da Antonio Taramelli fino a qualcuno vivente – quadro che è perfino offensivo per la intelligenza di noi Sardi – entrano anche la storiella del «ballatoio o terrazzino terminale» che avrebbero avuto i nuraghi e la storiella dei «modellini di nuraghi». Purtroppo non c’è opera o studio, sia che aspiri ad essere scientifico sia che abbia un intento di divulgazione, che non presenti i nuraghi col ballatoio terminale, come quello delle torri medioevali e post-medioevali. Ed invece questi “ballatoi” e quei “modellini” non esistono affatto e non sono esistiti mai.
I supposti “ballatoi”
L’archeologo che ha scavato il Nuraxi di Barumini ha ritenuto di poter affermare l’esistenza del ballatoio terminale nel grande nuraghe in base al ritrovamento, non in situ, ma sparsi nel terreno, di lunghi massi che egli ha considerato “mensoloni”, i quali appunto avrebbero sostenuto il “ballatoio” terminale dell’imponente edificio.
Egli ha pure disegnato quella che sarebbe stata la posizione originaria di quei mensoloni, ma purtroppo in una maniera tale che è chiaramente contraria alle leggi della statica. Sul piano funzionale egli ha sostenuto che il ballatoio serviva ai guerrieri assediati nella supposta grande fortezza, a far sì che i massi scaraventati sui nemici cadessero a perpendicolo su di essi (quasi che rimbalzando sulla muraglia inclinata non potessero essere altrettanto dannosi!).
 Senonché nessun nuraghe ha mai avuto un “terrazzino o ballatoio terminale”, per il fatto essenziale che lo impediva la tecnica costruttiva di allora, fondata sull’uso esclusivo della “pietra”, per di più senza l’uso di alcuna malta.
Si deve considerare che la costruzione dei ballatoi terminali degli antichi campanili, torri e castelli è stata possibile solamente dopo l’uso di mattoni cotti, cementati da malte molto resistenti. Però nessuno studioso ha mai affermato e tanto meno dimostrato che i nuraghi avessero sulla cima ballatoi costruiti con mattoni e cementati con una qualsiasi malta.
Questa “favola” dei ballatoi terminali dei nuraghi, messa in bella mostra dai cartelloni esplicativi di nuraghi monumentali e dei nostri musei e dai pieghevoli pubblicitari ad uso dei turisti, è partita – come dicevo poco fa – dal ritrovamento, ai piedi prima del Nuraxi di Barumini e dopo di numerosi altri nuraghi, di “mensoloni” che avrebbero per l’appunto avuto la funzione di sorreggere quei “ballatoi”.
Io però avevo pubblicato, già nel 1970 e poi di recente nel 2006, le fotografie di mensoloni situati ancora in situ, sulla cima dei Tresnurachesdi Nùoro e del nuraghe Albucciu di Arzachena, i quali risultano separati l’uno dall’altro e intervallati, in una posizione che non ha alcuna funzionalità pratica, mentre mostra di averne una semplicemente decorativa, esattamente come fanno i mensoloni che si trovano sulla cima delle torri dell’Elefante e di san Pancrazio di Cagliari e del Castello dei Malaspina di Bosa (M. Pittau, La Sardegna Nuragica, Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 64, 65; M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monti Prama, Sassari 2009, II ediz., EDES, pag. 16).
A questi esempi sono oggi in grado di aggiungere le fotografie di un nuraghe dei monti di Baunei, che mi sono state fornite da un mio amico del luogo:
Insomma i mensoloni terminali dei nuraghi in effetti determinavano e costituivano una “corona radiata” con funzione decorativa dell’edificio. Ma oltre che funzione decorativa i mensoloni del Nuraxi di Barumini e di altri numerosi nuraghi potevano forse avere una funzione simbolico-religiosa, indicante i raggi del Sole, divinità che indubbiamente anche i Nuragici adoravano.
I supposti “modellini di nuraghe”
Dei “modellini di nuraghe” per il vero si faceva un gran parlare da molto tempo, ma il loro entrare prepotente nelle discussioni è venuto dopo che – finalmente – sono stati effettuati un po’ di scavi nel sito dove sono stati trovati gli ormai famosi Guerrieri di Monti Prama. Uno degli archeologi che hanno effettuato gli scavi ha ritenuto di aver trovati ben 8 modelli di “nuraghi complessi” e poi altri 13 modellini di “nuraghi singoli”. Per il vero egli ha manifestato una notevole difficoltà quando ha tentato di metter su una spiegazione di questi troppo numerosi “modelli e modellini di nuraghi”, ma soprattutto è caduto nell’errore di interpretare un elemento conico che sta sulla cima di questi “modellini” come «la copertura della scala di accesso al terrazzo superiore».
Ma di che materiale sarebbe stata fatta questa “copertura della scala”? forse di plexi-glas? E quale riscontro archeologico è stato mai trovato per essa? Perché quell’elemento conico o cupoletta risulta al centro della cima del “modellino” e non decentrata, come decentrata risulta essere sempre la scala di tutti i nuraghi?
In realtà i supposti 8 modelli di nuraghi complessi non sono altro – come è stato giustamente detto da un altro archeologo – che “basi di colonne” e “capitelli” del tempio ivi esistente.  
E nemmeno le altre 13 statuette, alte una trentina di centimetri, sono “modellini di nuraghe”, I) perché risultano troppo alte e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alte come sono avrebbero dovuto avere anche un segno di qualche finestrone, come di fatto si constata in alcuni nuraghi piuttosto alti.
In realtà le 13 statuette di Monti Prama non sono altro che miniature di “lucerne” o di “candelabri”, la cui cupoletta finale indica la fiamma accesa.
Si deve considerare con attenzione che la presenza di lucerne ocandelabri in miniatura nel sito di Monti Prama ha una sua esatta motivazione nel fatto che erano in un sito sacrale e precisamente in un tempio dedicato al Sardus Pater. Invece eventuali “modellini di nuraghe” quale mai motivazione potevano avere nel tempio e, più in generale, in qualsiasi altro sito? Che senso aveva e quale spiegazione aveva la fabbricazione di molti “modellini di nuraghe” in generale? Nella sala delle riunioni del nuraghe di Palmavera di Alghero la presenza di un altare a forma di coppa o calice ha un senso in vista delle importanti decisioni politico-religiose che vi si prendevano, mentre la presenza di un “grande modello di nuraghe” – come è stato comicamente detto e scritto – non ha alcun senso né alcuna spiegazione.
E pure grandemente errata è la spiegazione che è stata data e corre in giro del cosiddetto “Modellino di Olmedo”. Questo non era affatto il modellino in bronzo di un nuraghe quadrilobato, I) perché i suoi 5 bracci risultano troppo alti e sottili, II) perché la loro cima non indica affatto il “ballatoio” dei nuraghi, che non è esistito in nessun nuraghe, III) perché non portano alcun segno, in quella che dovrebbe essere la lunga cerchia muraria, per indicare un elemento architettonico indispensabile, l’”ingresso”; IV) alti come sono i 5 bracci e soprattutto quello centrale avrebbero dovuto avere anche il segno di qualche finestrone nella loro muraglia e invece non ne hanno alcuno.
E le stesse identiche obiezioni muovo per il bronzetto di Ittireddu, anch’esso erroneamente interpretato come “modellino di nuraghe”.
Invece, a mio giudizio, anche quelli di Olmedo e di Ittireddu non sono altro che il modellino di una lucerna, una “lucerna plurima” a 5 bracci o becchi, analoga ad una plurima di terracotta che è stata trovata a Sant’Antioco. Ed anche a questo proposito vale la importante considerazione or ora fatta: nelle caratteristiche di sacralità che valeva per tutti i bronzetti nuragici – dato che costituivano tutti altrettanti doni fatti alle varie divinità – la riproduzione di una lucerna plurima si spiega perfettamente, la riproduzione di un nuraghe plurimo o polilobato non trova alcuna spiegazione.
È verosimile che queste due lucerne plurime implichino anche una “simbologia cosmica”, come ha scritto il mio amico architetto Franco Laner: i bracci dei quattro spigoli rappresenterebbero i quattro punti cardinali, mentre il braccio centrale rappresenterebbe la dimensione verticale dell’alto e del basso.
In proposito è da ricordare che questa medesima simbologia probabilmente esisteva anche nella cosiddetta “Tomba di Porsenna” di Chiusi, in Etruria.
La “favola” del ballatoio terminale dei nuraghi è entrata anche nella fabbricazione del cosiddetto “modellino di nuraghe quadrilobato di San Sperate”, in pietra arenaria giallo-rosa, esposto in bella evidenza nel Museo di Cagliari, che io di recente ho dimostrato essere nient’altro che un grossolano ed anche ridicolo “falso”. Che di falso si tratti, scolpito da qualcuno che quasi certamente si potrebbe riconoscere dalle carte che riguardano l’acquisizione dell’oggetto da parte della Soprintendenza Archeologica di Cagliari, è dimostrato chiaramente da alcuni fatti, ma soprattutto da due particolari: I) Il supposto modello di nuraghe presenta un “porticato” che costituirebbe la base dell’edificio; 2) Il muro dei quattro torrioni presenta nella sua parte finale una “rientranza circolare”. Senonché si tratta di due particolari costruttivi che da un lato non si ritrovano in nessun nuraghe reale, dall’altro avrebbero impedito la prosecuzione della costruzione del nuraghe stesso, il quale sarebbe crollato subito, con la messa in opera dei successivi cerchi di massi.
Infine l’oggetto sembra appena uscito dall’officina di uno scultore (e ben a ragione!), dato che presenta molti spigoli della pietra ancora vivi ed intatti.

Fonte immagini a corredo dell’articolo, Massimo Pittau.

Tratto da PaperBlog
http://it.paperblog.com/ballatoi-terminali-e-modellini-di-nuraghi-mai-esistiti-1650328/

lunedì 28 gennaio 2013

I cereali nell'evoluzione del cane


Quando l'agricoltura trasformò il lupo in cane

Il confronto fra il genoma dei due animali ha messo in luce che i cambiamenti comportamentali sono andati di pari passo con quelli del metabolismo degli amidi: durante il lungo periodo di introduzione dell'agricoltura, le discariche di rifiuti degli insediamenti umani divennero una risorsa per i lupi che vivevano nei dintorni, favorendo la selezione di geni utili sia per un uso efficiente degli amidi sia per un comportamento più compatibile con la vita insieme agli esseri umani
La nascita dell'agricoltura non è stata un momento cruciale soltanto per l'umanità, ma anche per l'evoluzione del lupo in cane domestico. A testimoniarlo sono alcune regioni genetiche, ora identificate da un gruppo di ricercatori dell'Università di Uppsala, che sarebbero alla base di cambiamenti comportamentali e adattamenti cruciali.

Come si legge in un articolo pubblicato su “Nature”, Åke Hedhammar, Kerstin Lindblad-Toh e collaboratori hanno dimostrato che durante il processo di domesticazione è avvenuta un'evoluzione parallela di geni che modulano il comportamento e di geni che hanno un ruolo chiave nella digestione degli amidi.

I ricercatori hanno ri-sequenziato e confrontato l'intero genoma del cane domestico e del lupo, identificando 3.800.000 varianti genetiche grazie a cui sono riusciti a a isolare 36 regioni genetiche che risultano essere state sottoposte a una lunga pressione selettiva. Diciannove di queste regioni contengono geni importanti per le funzioni cerebralI: in particolare, otto di questi geni riguardano  percorsi di sviluppo del sistema nervoso correlabili a cambiamenti del comportamento essenziali per una vita assieme all'uomo. Chiari segni di selezione riguardano anche dieci geni che presiedono al metabolismo dei grassi e, soprattutto, alla digestione degli amidi.
Allo stato attuale – osservano i ricercatori - non è ancora chiaro come e perché i cani siano stati addomesticati. Può darsi che l'uomo abbia catturato e allevato cuccioli di lupo per sfruttarli per fare la guardia o per cacciare, selezionandone poi i caratteri più utili per questi nuovi ruoli. Ma è anche possibile - e i risultati di Hedhammar e colleghi sembrano suggerirlo – che la forza trainante del processo di domesticazione sia stato uncambiamento della nicchia ecologica occupata da alcuni gruppi di lupi durante il periodo in cui l'essere umano stava passando da uno stile di vita nomade a uno sedentario, all'alba della rivoluzione agricola.

I lupi potrebbero essere stati attratti dalle discariche vicine ai primi insediamenti umani – come accade oggi nelle aree antropizzate dei parchi naturali - e la selezione naturale può aver favorito i tratti che consentivano un uso efficiente della nuova risorsa ricca di amidi, innescando l'evoluzione di lupi “spazzini”, dai quali si sarebbero discesi i cani moderni. I più antichi resti fossili di un cane sicuramente vissuto con l'uomo sono stati ritrovati insieme a resti umani in una tomba della cultura natufiana, in Israele, e risalgono a 11.000-12.000 anni fa circa.

Articolo preso da “Le scienze”:
http://www.lescienze.it/news/2013/01/23/news/cane_domesticazione_lupo_geni_metabolsimo_amidi-1472118/

Articolo originale su Nature:
http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature11837.html