lunedì 13 dicembre 2010

Turris, eterno cantiere con il mosaico di Orfeo sepolto sotto la sabbia


Le Pompei sarde. I siti archeologici dell'isola e i pericoli di degrado: il viaggio comincia dall'antica Porto Torres.Gli antichi decumani di Nora sono lastricati di buone intenzioni. Perché a parole tutti si preoccupano per lo stato in cui versa la "Pompei sarda". Intanto il tempio di Esculapio è ancora appoggiato nel vuoto. E il promontorio che si stende alla fine della Strada Trionfale continua a franare. Un po' più a ovest, il sindaco di Sant'Antioco Mario Corongiu è furibondo con il governo. "Senza i fondi per le opere di consolidamento - tuona - la necropoli non può essere visitata". Ma se Sulki piange, Tharros non ride. E così Porto Torres con i suoi tesori.
Nell'antica Turris Libisonis il ponte romano che scavalca il Rio Mannu sin dai tempi di Augusto e Tiberio ne ha visto davvero di tutti i colori. Lungo 135 metri e poggiato su sette arcate decrescenti, fu costruito per collegare il municipio di Karales con il porto dell'importante colonia del nord Sardegna, seguendo grosso modo il tracciato dell'odierna statale Carlo Felice. Nonostante lo scorrere dei millenni ha retto orgogliosamente all'indifferenza di chi sino a pochi anni fa, dopo aver cosparso di asfalto il basamento originale in trachite, lo utilizzava addirittura come passaggio per i mezzi pesanti diretti alla zona industriale di Fiume Santo.
Ora, grazie a un progetto del 2009 finanziato in parte con i fondi del Comune e in parte con soldi dell'Unione europea, sta lentamente tornando allo splendore voluto degli antichi architetti. Ma rarissimi cartelli stradali indicano dove si trova, quasi si volesse nascondere al mondo tanta rara bellezza. E se da un lato è completamente coperto alla vista dal moderno ponte Vespucci (già restaurato chissà quante volte), guardandolo da sud-est non si può fare a meno di inquadrarlo nell'inquietante skyline della centrale petrolchimica: un susseguirsi di cisterne e ciminiere che fa riflettere.
Il ponte romano, dunque, è stato un po' il simbolo dell'incuria di cui sono tuttora vittime i tesori archeologici della zona. Perché Porto Torres, conosciuta dai villeggianti soltanto come attracco per raggiungere le varie località turistiche sarde, è potenzialmente un polo d'attrazione culturale. Per convincersene basta dare un'occhiata a quello che potrebbe diventare un invidiabile parco archeologico. L'impressione, però, è che sia ancora tutto da fare. O quasi. Divisa in due frazioni (una di competenza demaniale e una di competenza locale) la parte cantieristica dell'impianto urbano emerso dagli scavi della vecchia Turris non è di fatto visitabile da sette anni.
Sporcizia, erba alta, mezzi meccanici abbandonati, capannoni e materiale edilizio colpiscono l'occhio almeno quanto le terme centrali conosciute come "il palazzo di Re Barbaro" o le strade che lo costeggiano, ai lati delle quali c'erano le tabernae, ossia i negozi e le botteghe artigiane. Finito? Macché. Sostanzialmente celato all'umanità resta anche il criptoportico. E ancora il frigidarium, con due vasche destinate ai bagni d'acqua fredda. Per non parlare di uno dei "pezzi" più pregiati di tutta l'area archeologica, lo straordinario mosaico di Orfeo, scoperto e quasi subito ricoperto di terra per totale mancanza di fondi.
"Tuttavia - spiega Antonietta Boninu, direttore archeologico della Sovrintendenza - un progetto già in corso prevede proprio la protezione fisica dei mosaici, mentre altri progetti sono in programma sempre per il restauro di mosaici e affreschi". Un deciso passo avanti. "Sono convinta che una buona sinergia tra Comune e Sovrintendenza possa sortire ottimi frutti", conclude l'esperta. Nell'attesa i quattro giovani operatori della cooperativa di servizi culturali "L'Ibis", impiegati nell'area archeologica attendono a braccia incrociate che qualcuno bussi all'ingresso. "In realtà - spiega Giancarlo Pinna, appassionato di archeologia e presidente dell'associazione "Turris Bisleonis" - le guide potrebbero accompagnare i turisti a vedere l'Antiquarium, un piccolo museo ricco di pezzi sorprendenti. Ma quando i curiosi scoprono che l'area archeologica è interdetta girano i tacchi e se ne vanno". Verissimo....continua su

http://lanuovasardegna.gelocal.it/dettaglio/turris-eterno-cantiere-con-il-mosaico-di-orfeo-sepolto-sotto-la-sabbia/2935538/2

venerdì 3 dicembre 2010

Il Feudalesimo Nuragico

Ma che bel castello!


Ultimamente ho notato che su "Leonardo" il Tg delle scienze, si sta parlando spesso e volentieri di Sardegna.
Ciò non può che farmi felice, sia che si parli dei pellicani "ospiti" a Molentargius, che di Nuraghi.
Infatti in quest'ultimo servizio (andato in onda pochi minuti fa) si è discusso sulle eccezionali capacità dei nuragici come architetti.
Tutto giusto ho pensato io. Si è discusso delle "solite teorie" ma almeno per mezzo minuto un pò d'Italia ha visto e sentito parlare di Nuraghes. Fosse sempre così! A cabonu mannu!*
Tuttavia, l'unica cosa che mi ha veramente colpito nel discorso è l'interpretazione della società nuragica che è stata data (oltre alla datazione proposta per la stessa; 1800 a.C. - 400 a.C. !).
Essendo i nuraghi dei castelli, essendo così capillarmente diffusi sul territorio...la società nuragica era essenzialmente feudale!
Tombola!
Questa bestemmia, sparata in modo così leggero, è invece un argomento di una complessità mostruosa, tutt'altro che facilmente risolvibile.
Dov'è il problema? Tutto è basato sulla funzione del nuraghe. Il nuraghe è un castello. I nuragici erano dei feudatari. Semplice!
Il gioco non funziona così. Spiacente.
Non sappiamo la funzione dei nuraghes, dunque qualsiasi ragionamento basato sulla finalità (ripeto ignota) di queste strutture, è decisamente azzardato.
L'interpretazione della società nuragica sulle strutture è ancora troppo arretrata per poter dare risposte anche lontanamente indicative.
Il nuraghe è un tempio, tutti i nuragici erano un popolo di lotofagi lobotomizzati.
Il nuraghe è un castello, la civiltà nuragica era una moltitudine di mini staterelli con migliaia e migliaia di bellicosi re che passavano il tempo ad ammazzarsi l'un l'altro (ma come facevano allora ad aver tempo per costruire nuraghes?).
Il nuraghè è un silos, i nuragici passavano il tempo a coltivare il grano o ad ammassare i propri beni dentro queste banche megalitiche. Tanti piccoli berluschini!
Il Nuraghe è un simbolo, i nuragici non avevano nulla da fare tutto il giorno ed ammazzavano la noia tirando su torri di migliaia di tonnellate.
E via dicendo!

Appare dunque ovvio che un interpretazione più vicina alla verità potrà ottenersi soltanto:
-scavando questi benedetti nuraghes (tanti però!)
-facendo in ogni scavo tutte le analisi del caso (esame palinologico, paleofaunistico, osteologico, stratigrafia, analisi al carbonio, spettrografia di massa...ecc!)
-stipendiando almeno un archeologo per comune, in modo da avere un censimento ufficiale, totale e definitivo di quante siano queste strutture!
-studiando i ritrovamenti, le strutture, accettando questa tanto decantata multidisciplinarietà (archeoastronomia, etnografia, archeometallurgia, et cetera!) e non andare avanti con il paraocchi e a testa bassa.

E via dicendo!

per ora le ipotesi proposte son panzane meditate a tavola, di fronte ad un buon procceddu arrosto.
Chiacchere al vento!

e questo è quanto...
Meditate gente, meditate!





*magari!

lunedì 15 novembre 2010

L'abbandono di Monte d'Accoddi

Sassari.

La denuncia della Commissione comunale cultura: il sito è abbandonato

La vergogna di Monte d'Accoddi

"Domenica 15 novembre 2009
N uraghi assediati da capannoni industriali, domus de janas trasformate in discariche, i resti dell'acquedotto romano dimenticati e l'altare preistorico di Monte d'Accoddi, il più importante complesso megalitico del Mediterraneo, ignorato dai visitatori semplicemente perché non esistono indicazioni turistiche per segnalarlo.
È questa la cartella clinica del sistema archeologico di Sassari, tracciata ieri a Palazzo Ducale dalla commissione Cultura, presieduta dal Michele Pinna. Centottanta siti sparsi nel territorio comunale e in gran parte abbandonati a se stessi.
La situazione è stata descritta alla commissione dallo storico sassarese, Francesco Ledda. Il primo dato preoccupante riguarda il sito di Monte d'Accoddi.
«Nell'arco di pochi anni il numero di visitatori dell'altare di Monte d'Accoddi si è ridotto del settanta per cento. Prima si registravano 16mila presenze l'anno, ora si arriva a stento alle 5 mila», ha spiegato Ledda.
«I motivi sono la scarsa pubblicità di cui gode il monumento archeologico. Sulla strada 131 i cartelli indicatori sono quasi invisibili, mentre sulla Camionale, dove si è spostata una grossa mole del traffico automobilistico, i cartelli mancano del tutto».
In questo modo il sito su cui sorge l'altare preistorico per cui la Fondazione Antonio Segni ha richiesto all'Unesco l'inserimento fra i beni riconosciuti come patrimonio dell'umanità, resta del tutto anonimo alle frotte di turisti che d'estate trascorrono le vacanze nel nord Sardegna.
Ma le vere note dolenti arrivano dall'immensa mappa archeologica del territorio sassarese.
Si va dai nuraghe Li Luzzani e Giagamanna, enclavi archeologiche nella zona industriale di Predda Niedda (il primo è abbandonato e ricoperto di macchia mediterranea, il secondo non è mai stato oggetto di scavi e si sta sgretolando), alle domus de janas di Li punti, alle tombe dei giganti di Molafà, anche queste abbandonate al proprio destino, fino ai resti dell'acquedotto romano che approvvigionava l'antica Turris Libyssonis: esistono chilometri di tracce che rischiano di crollare (per esempio a Tana di lu mazzoni), sparse per le campagne attorno a Sassari, fino a Porto Torres.
«È necessaria una importante campagna di scavi per salvaguardare queste testimonianze storiche» ha chiuso Michele Pinna, «ma Sassari siamo abituati a un modello culturale dell'effimero, manca una coscienza culturale dell'identità». E gli stanziamenti nei bilanci pubblici sono sempre più esigui. ( v. g. )"

Dall'unione Sarda del 15/11/2009


Pensate che a distanza di UN ANNO possa esser cambiato qualcosa?

sabato 16 ottobre 2010

Ecco perchè non ha senso la normativa Inglese sui beni archeologici



Andando per campi con un metal detector alla ricerca di monete, un cacciatore di tesori inglese ha fatto una eccezionale scoperta archeologica: un elmo da cavalleria romano completo di maschera facciale. Il copricapo raffigura il volto di un giovane dagli occhi ieratici e risale a circa 2.000 anni fa. Secondo gli esperti era un oggetto cerimoniale, da indossare in parata come suggerisce Arriano di Nicomedia in un trattato militare dell'epoca dell'imperatore Adriano, non una protezione per un soldato in combattimento. La scoperta è avvenuta nel presi del villaggio di Crosby Garrett in Cumbria. Il giovane cacciatore di tesori, identificato solo come un uomo di circa vent'anni, aveva per anni inseguito oggetti preziosi passando al metal-detector le campagne nei pressi della sua fattoria nel Nord Est dell'Inghilterra. Finora però non aveva trovato altro che poche monete. Ci si può immaginare dunque la sua sorpresa quando in maggio, a faccia in giù nel fango, ha avvistato lo straordinario elmo di bronzo: inizialmente ha pensato che si trattasse di un ornamento di età vittoriana.

Se la scoperta fosse stata fatta in Italia l'elmo sarebbe quasi certamente finito in un museo. Non così in Gran Bretagna dove gli oggetti antichi di bronzo non sono coperti dal Treasure Act, una legge del 1996 secondo cui solo artefatti vecchi di oltre 300 anni e composti per almeno il 10 per cento in oro o argento devono essere sottoposti a un'inchiesta governativa che ne può condizionare la vendita. Diverso è il caso di un oggetto di bronzo che può così finire sul libero mercato, un fatto che non ha mancato di suscitare polemiche: i proventi saranno divisi a metà tra scopritore e proprietario del campo. E' stato così che l'elmo è finito in mano a Christiés che gli ha dato una stima di 300 mila sterline: poco secondo esperti citati dal Guardian secondo cui il prezioso manufatto potrebbe arrivare a superare il mezzo milione. Tullie House, un museo di Carlisle in Cumbria che ha una importante collezione di antichità romane, vorrebbe disperatamente comprare l'elmo con la benedizione del British Museum. Sarà inevitabile così una battaglia a colpi di puntate quando il 7 ottobre l'enigmatico volto di bronzo coi riccioli coperti da un cappello frigio rifinito alla punta da un grifone verrà venduto al migliore offerente. Originariamente la superficie era stata stagnata cosicché doveva brillare come argento mentre grifone sul cappello e capelli erano probabilmente dorati: "E' uno straordinario esempio di metallurgia romana al suo apice", ha sostenuto Christie's. Finora sono state scoperte solo due elmi-maschera cerimoniali come questo: uno nel 1796 oggi al British Museum, l'altro nel 1905 e adesso al Museo di Antichità di Edimburgo.
Fonte: ANSA

domenica 10 ottobre 2010

Una finestra sulla Sardegna del primo secolo d.C.

Per un volume sulla Tavola di Esterzili
e sulle controversie tribali nella Sardegna antica



di Fernando Pilia


Nel marzo del 1866 il contadino esterzilese Luigi Puddu,
soprannominato "Pibìnca", mentre arava un campicello in località di S'e Munzu Franciscu, nella zona di Corti 'e Luccetta, già appartenente agli eredi di Pietrino Serra ora in possesso di Ermenegildo Loi), s'accorse a un tratto che il vomere di ferro del suo rustico e tradizionale aratro di legno aveva urtato contro qualcosa di duro e si era bloccato. Preoccupato per l'imprevisto ostacolo e incuriosito per l'incidente, allontanò dal solco i buoi aggiogati, si mise a scavare con la zappa e riportò allo scoperto una lastra di bronzo scolpita, in ottime condizioni, lunga 60 centimetri, alta 45 cm., spessa 5 mm. e del peso di circa 20 chilogrammi, costituita da metallo ben compatto e di ottima qualità, sagomata in tutti i lati.
L'ignaro scopritore di così importante documento storico, essendo analfabeta, come gran parte degli abitanti di Esterzili di quell'epoca, portò la tavola di bronzo in paese e la volle mostrare al parroco canonico Giovanni Cardia, presso il quale aveva buoni rapporti ed anche un debito di pochi scudi che il sacerdote gli aveva prestato. Tiu Pibinca accettò i due scudi d'argento, corrispondenti alla discreta somma di dieci lire, un piccolo capitale in quell'epoca di miseria e di recessione, e consegnò al parroco la tavola di bronzo. Il canonico Cardia, che aveva una certa cultura ed era in grado di valutare il pregio della scoperta, si mise in contatto con l'illustre archeologo canonico e senatore Giovanni Spano che si fece dare la lastra epigrafica, la esaminò attentamente, la studiò con interesse e la pubblicò, cedendola infine al Museo Nazionale di Sassari, dove la cosiddetta Tavola di Esterzili si trova ancora esposta bene in vista. L'iscrizione, incisa a caratteri capitali in venti sette righe, esprime il seguente contenuto:

Addì 18 marzo nell'anno del consolato di Otone Cesare Augusto. Estratto conforme, trascritto e collazionato da quanto contenuto nella tavola 5, capi 8, 9 e lO del documento originale del proconsole L. Elvio Agrippa e pubblicato da Gn. Egnazio Fusco, cancelliere del questore. Il giorno 13 di marzo il pro console Lucio Elvio Agrippa, sentite le parti in causa, ha reso pubblica questa sentenza: «Poiché il bene comune richiede che si debba tener conto di ciò che afferma la sentenza nella
causa dei Patulcensi e poiché Marco Giovenzio Rissa, uomo di grande autorità, procuratore dell'imperatore, molte volte ha ordinato che i confini del territorio dei Patulcensi si devono mantenere come erano stati fissati nella tavola di bronzo di Marco Metello, ritenendo inoltre che era disposto a condannare i Galillensi, i quali in molte circostanze avevano procurato il disordine con risse e atti arroganti e non avevano ubbidito al suo decreto, ma che tuttavia, in ossequio alla benignità dell'imperatore Ottimo Massimo, era ancora disposto ad avvertirli con un'altra ordinanza in maniera che stessero calmi rispettando questa giusta sentenza e prima dell'arrivo del mese di ottobre sgombrassero i territori dei Patulcensi rispettandone il libero possesso; che se intendessero con ostinata caparbietà continuare la provocazione opponendosi agli ordini, egli stesso era pronto a punire tutti coloro che intendessero provocare disordini; dopo che i Galillensi per la medesima causa si erano rivolti a Cecilio Semplice, uomo illustre, affermando che dai documenti dell'archivio imperiale erano disposti ad esibire un'altra tavola con gli atti di questa causa; dopo che egli avéva fatto sapere che la buona volontà lo spingeva ancora a dare ulteriore proroga per la presentazione delle prove e per questo aveva loro concesso altri tre mesi fino ai primi di dicembre, trascorsi i quali, se la carta non gli fosse pervenuta, egli si sarebbe attenuto a quanto contenuto nella mappa presente in provincia, anch'io, adito dai Galillensi che affermavano che la copia non era ancora pervenuta, ho concesso loro tempo fino al primo di febbraio, rendendomi conto che a questi proprietari avrebbe fatto comodo un'altra proroga, ordino che i Galillensi, entro il primo giorno d'aprile, si ritirino dai territori dei Patulcensi Campani che hanno occupato di prepotenza senza averne alcun diritto. Qualora essi non siano disposti ad ubbidire a questo decreto, sappiano che saranno condannati alla pena che molte volte è stata loro prospettata per il ritardo eccessivo.
Segue l'autenticazione di Gneo Pompeo Feroce, L. Aurelio Gallo, M. Blosso Nepote, C. Cordo Felice, L. Vigellio Crispino, C. Valerio Fausto, M. Lutazio Sabino, L. Cocceio Geniale, L. Plozio Vero, D. Veturio Felice e L. Valerio Peplo. (...)

(...) Sottolineo che questo importantissimo documento storico, assai rilevante sotto il profilo amministrativo, giuridico, linguistico, geografico ed epigrafico, è una delle rare testimonianze scritte a noi pervenute che ci illustra con abbondanza di dati e di particolari la situazione delle popolazioni Sarde in epoca imperiale romana, comfermando, tra l'altro, per la prima volta, la presenza di Otone sul trono di Roma. Infatti la data del 18 marzo (dell'anno 69 dopo Cristo) si riferisce ad un mese e due giorni anteriori alla morte per suicidio dell'imperatore tiranno dopo la sconfitta di Bedriaco presso Cremona. Inoltre la tavola di bronzo trovata nell'agro di Esterzili illumina le vicende di un periodo di lotte feroci e sanguinose fra le tribù dell'interno dell'isola, rivela in pratica uno stato permanente di guerriglia, di sconfinamenti e di razzie, spiega la funzione dei governatori romani e fornisce altresì interessanti particolari burocratici e linguistici.
Mi pare che ci indirizzi nell'individuazione della sede dei Galillenses che, a mio parere, era proprio sull'altopiano di Orborèdu, sulla piana ai piedi del massiccio del monte di Santa Vittoria, dove ancora oggi si possono osservare le rovine dell'abitato romano, chiamato dai locali Cea de Idda (ossia il pianoro della villa o oppidum romano), quella valle pianeggiante dell'abitato ricchissima di avanzi archeologici che ne attestano l'importanza e fanno pensare a questa località come sede delle turbolente tribù dei Galillensi, sempre in agitazione contro le genti della pianura e delle colline delle valli del Flumineddu e del Flumendosa e delle
fertili terre della ricca area dei Campidani.
L'atteggiamento dei pastori montanari dell'area povera di risorse contro le popolazioni delle fertili e ricche terre del sud-est dell'isola ha origini remotissime e conserva ancora oggi la tradizione di fastidio e di sconfinamento legata alla pratica abigeataria. D'altronde ancora durante i secoli XIV e XVI, stando a quanto hanno registrato i parroci di questa zona nei libri parrocchiali che hanno raccolto le cronache delle comunità dei nostri villaggi, gli abitanti del territorio vicino al luogo dove è stata rinvenuta la famosa tavola di bronzo avevano conservato lo stesso carattere irrequieto di violenti invasori delle aree confinanti. Infatti nell'anno 1358 il villaggio di Lessèi (ora scomparso nell'agro di Ulàssai) pagava i diritti feudali ai baroni della Curatoria o Incontrada della Barbagia di Seùlo, i quali avevano guidato un'invasione di pastori esterzilesi per occupare il territorio al di là del rio Flumineddu. Inoltre, come si legge nel "libro de todas las gracias", risalente agli ultimi scorci del dominio catalano-aragonese, nel maggio del 1580 i capi delle comunità dei villaggi dell'Ogliastra, riuniti in parlamento a Tortolì, chiesero l'intervento del conte di Quirra per riavere i salti di Paùli usurpati alla comunità di Ulàssai dai pastori-predoni di Esterzili in azioni violente. E questi episodi si ripeterono sino alla fine del secolo scorso provocando scontri, liti furiose, contese violente, spargimento di sangue e molte vittime Mi pare che non si debba cercare d'individuare altrove la sede dei Galillensi, ma, alla luce di queste considerazioni, ci si debba soffermare proprio in quest'area barbaricina, tra l'Ogliastra, il Gerrei e la Trexenta. Nella grande mostra nazionale di Italia 1961 a Torino, ad esaltazione della civiltà italiana nel centenario dell'unità, in rappresentanza del meglio dei beni culturali della Sardegna, fu esposta anche la tavola di bronzo di Corti 'e Lucetta, un documento rilevante che getta luce sulle nostre vicende lontane.

tratto da "Mastino A. Atti del convegno 1993"

venerdì 2 luglio 2010

Sisara condottiero Shardana? L'opinione di Zhertal

Sulle tracce di Sisara, il capo degli Shardana terrore degli Israeliti

Portano dentro i confini odierni di Israele le tracce dei guerrieri Shardana, il popolo del mare strettamente legato ai sardi dell’antichità. Una tesi per molti versi già nota, che li vede protagonisti di episodi storici rilevanti in quello che allora - parliamo di oltre tremila anni fa - era l’estremo oriente, e confortata da numerosi studi. Una tesi che ora sembra prendere ulteriore forza con il lavoro di un archeologo israeliano, Adam Zertal dell’università di Haifa, autore di un libro su un mitico condottiero dell’epoca, Sisra in ebraico, intitolato «Il segreto di Sisara», appena pubblicato. Ma qual era il segreto di questo oppressore dei figli di Israele citato anche nella Bibbia? Secondo lo studioso, Sisara era il capo degli antichi Shardana, riuniti in un esercito alle dipendenze del re cananeo Labino, che poteva contare su ben 900 carri, con il quale teneva sotto scacco un vasto territorio che arrivava dalle colline del Carmelo sino al lago di Galilea. Un generale il cui predominio finì con una disfatta militare a Meghiddo, per mano del condottiero israelita Barac e della profetessa Debora. È sempre la Bibbia a dirci che quello stesso giorno Sisara fu ucciso a tradimento da una donna, Giaele, che riteneva amica. Ora, a far luce su questo misterioso personaggio, tremiladuecento anni dopo, arriva la pubblicazione di Adam Zertal, frutto di vent’anni di scavi e ricerche in uno dei siti archeologici più enigmatici di Israele: le rovine di El-Ahwat, su una collina che dominava la Via Maris, l’arteria che già all’epoca dei Faraoni conduceva dalla costa mediterranea verso la spianata di Meghiddo (l’Armageddon delle profezie apocalittiche) e verso la Galilea. Dallo studio integrato di reperti archeologici, di geroglifici egizi, di vari documenti e del testo biblico, Zertal, in un’intervista rilasciata ieri all’Ansa, suggerisce che El-Ahwat fosse una cittadella fortificata nuragica - la più imponente della zona, al suo tempo - eretta dagli Shardana: appunto il popolo di navigatori e guerrieri giunti dalla Sardegna. Erano stati nemici degli egizi, che li rappresentavano con un elmetto su cui svettavano due corna. Ma poi, dopo che furono sconfitti e sottomessi, accettarono di diventarne servitori e presidiare per loro conto località strategiche. Diventarono, in una parola, mercenari. Il nome Saisara, dice lo studioso israeliano, non è semitico ma anzi evoca radici shardana. A riprova di ciò, Zertal cita reperti nuragici di Creta che menzionano una figura religiosa chiamata Saisara. «Chi costruì El-Ahwat doveva essere un megalomane», dice Zertal, riferendosi alle peculiarità di questo sito di cui oggi restano solo rovine. Le sue mura erano spesse dai 5 ai 7 metri, la forma esterna ondulare, sconosciuta in quella regione. «Un’architettura del genere - dice l’archeologo - esisteva allora solo in Sardegna e in Corsica. Ne deduco che fu importata dai combattenti Shardana». È davvero così? Non resta che girare la domanda all’archeologo Giovanni Ugas, dell’Università di Cagliari, autore di numerosi studi e pubblicazioni sugli antichi Shardana (l’editrice Fabula dovrebbe pubblicare un suo libro sull’argomento il prossimo anno). Una testimonianza diretta, quella di Ugas, perché verificata proprio sul campo, negli scavi di El-Ahwat, dove nel corso degli ultimi quindici anni l’archeologo cagliaritano si è recato più volte con un gruppo di studenti universitari. «Conosco bene quel sito - dice Ugas - perché abbiamo lavorato fianco a fianco con Zertal negli scavi di El-Ahwat. Purtroppo, la difficile situazione politica di quei luoghi ci ha costretto, una decina d’anni fa, a sospendere la nostra presenza sul campo, in particolare per l’incolumità degli studenti. Con Zertal comunque i rapporti sono sempre molto stretti, in seguito è venuto in Sardegna diverse volte. E io di recente ho pubblicato un saggio sugli antichi Shardana nel volume “In the Hill-Country and in the Shephelah and in the Arabah (Joshua 12, 8)” edito a Gerusalemme». Ma si può affermare, come fa l’archeologo israeliano, che ci troviamo in presenza di una fortezza nuragica a miglia e miglia di distanza dalla Sardegna? «La questione è abbastanza complessa. Ritengo che ci siano delle analogie - dice Ugas - ma è abbastanza comune, in quell’area orientale del Mediterraneo, trovare influenze in campo architettonico provenienti dal settore occidentale, e mi riferisco in particolar modo alla Sardegna e alla Corsica. E queste influenze sono avvenute in seguito ai movimenti dei popoli del mare, tra i quali troviamo appunto gli antichi Shardana. Quanto all’origine di questo popolo esistono diverse scuole di pensiero, io per quanto mi riguarda sostengo che provenivano dalla Sardegna». E Sisara, era davvero sardo-shardana? «Su questo tra studiosi siamo d’accordo. Lo era sicuramente». - Paolo Merlini

approfondimenti sul sito Israeliano

domenica 14 marzo 2010

La grande mistificazione?




Barumini.
La grande fortezza, il bastione impenetrabile, l'altissima torre di guardia.
La struttura si staglia imponente, gigantesca, sullo sfondo della Giara.
I nuraghi posti sul bordo della stessa svettano nettamente contro il cielo terso d'un mattino d'estate, mentre le cicale friniscono tra l'erba alta e le fronde semisecche.
Intanto la vita scorre lenta al villaggio, come ogni giorno. La calura eccezionale proibisce qualsiasi sforzo non necessario o spostamento inutile.
Solo qualche randagio si aggira, sfinito, per i vicoli del tortuoso complesso;
è quasi l'ora del pasto.
Non esce fumo dalle semplici case di pietra, oggi solo cibo freddo e ricco d'acqua, ortaggi perlopiù, per attenuare la sete ed il caldo torrido.
Sul bastione si aggirano figure di armati, ampi scudi, elmi dalle corna possenti, spade luccicanti.
Il loro sguardo vaga verso i confini del cantone. Spetta loro la difesa del "Re" del Nuraghe, sia da nemici esterni che interni.
Un uomo chiede di poter accedere alla struttura. Viene riconosciuto e gli viene calata una scala di corda, andrà a sostituire la vedetta della torre di guardia.
Nel palazzo-fortezza intanto "su meri" amministra la giustizia, stringe alleanze, decide le future mosse ai danni dei cantoni vicini. La guerra è il fondamento della civiltà nuragica. Sulle sue doti di guerriero egli ha fondato il suo regno, il suo prestigio, la sua potenza.
Due guerrieri scelti e di provata fiducia vigilano sulla sua vita, mentre nella stanza più interna del complesso, il Re medita sul futuro del suo popolo.








QUESTO, IN TEORIA.

E se non fosse stato così?


(continua....)








(c) Alessandro Atzeni, All rights reserved

sabato 27 febbraio 2010

L'OK di Bernardini? Sì ai Nuragici-Shardana


Libro.
L'archeologo Paolo Bernardini rilegge le vicende tra le età del Bronzo e del Ferro

Le tracce di micenei e fenici oltre il mito dell'isola di Sardò

Sabato 27 febbraio 2010

N
ell'antichità la Sardegna fu al centro di traffici e culture che si diffondevano per il Mediterraneo. Il mare (che non era ancora "nostrum") non fu una barriera per gli indigeni isolani. Al contrario fu come un'autostrada che inevitabilmente finiva per portare le navi sulle coste sarde. Una tappa obbligata che ebbe la stessa importanza di Creta, Cipro, delle isole egee, delle città di Turchia, Libano, Africa settentrionale. Gli antichi sardi non avevano paura del mare, così come li descrive la vecchia storiografia che li vedeva contadini e pastori costretti a prendere le armi per difendere il loro territorio dai bellicosi popoli del mare. Anzi, loro stessi furono abili navigatori e commercianti che battevano le coste della Toscana, del Lazio, della Sicilia per spingersi sino all'Egitto e alla Turchia. Furono, insomma, autentici protagonisti in quel millennio che dall'età del Rame e del Bronzo portò alla civiltà del Ferro. L'epoca che vide nascere le leggende di Ercole, dei Tespiei, di Ulisse e dei personaggi cantati da Omero, ebbe anche gli eroi sardi. Su questo non c'è dubbio. Il problema semmai è capire chi fossero quei "sardi" che accolsero le culture provenienti dal mare e trasferirono agli altri la propria civiltà e quel know how - come si dice oggi - di tecniche nella lavorazione dei preziosi metalli.
SCAVI RECENTI Una risposta soddisfacente, per quanto sommaria e tuttora incompleta, arriva dall'archeologia e dalle interpretazioni degli studiosi sulla base delle novità emerse dagli scavi negli ultimi decenni. Il risultato di questo lavoro e una nuova lettura della storia antica della Sardegna arriva da Paolo Bernardini, con il libro "Le torri, i metalli, il mare" edito da Carlo Delfino. Ex direttore del museo nazionale archeologico di Cagliari, ricercatore dell'università di Sassari specializzato nel periodo fenicio-punico, ha raccolto nelle 250 pagine del bel volume la sintesi di vent'anni di studi. Il taglio, seppure scientifico per le citazioni e la ricca documentazione, vuol essere soprattutto divulgativo nel tentativo di fare chiarezza su una materia che abbraccia il millennio tra il XV e il VI secolo avanti Cristo. Al di là del mito consolidato dalla vecchia storiografia, ricostruisce l'immagine dell'isola a partire dal 1500 sino alla colonizzazione dei cartaginesi. Esplora, cioè, le fasi più discusse e complesse che sinora hanno diviso gli studiosi sulla presenza delle diverse civiltà che si sono affacciate in Sardegna e sul ruolo degli stessi sardi. A partire dalla domanda: ma chi erano gli abitatori dei nuraghi ?
IL VIAGGIO Paolo Bernardini immagina di imbarcarsi su una nave dell'antichità e di intraprendere un viaggio lungo le rotte del Mediterraneo. «Itinerari millenari, custodi di mostri e di portenti, luoghi di insidie, di pericoli e di meraviglie, ma alla fine veicoli straordinari di incontro e di scambio culturale, di una crescita che è sempre mutamento e trasformazione», scrive Bernardini: «Dietro gli antichi e suggestivi nomei della Sardegna vive il ricordo di una storia complessa e stratificata di esplorazioni, commerci e relazioni che la ricerca archeologica inizia appena a intravvedere e che ha unito in modo profondo le diverse sponde e acque del Mediterraneo».
Nel corso di lontane e intricate vicende l'isola è Icnussa, l'orma lasciata da un dio, il cui perimetro è esplorato dai curiosi e intraprendenti fenici e greci. L'isola è Sardò, il nome della moglie di Tirreno, capostipite favoloso degli etruschi. Ma anche la terra dei Sherden, quei popoli del mare che come mercenari combatterono in Egitto a fianco ma anche contro gli stesso faraoni. Ed ancora l'isola è la terra dalle leggendarie vene d'argento, la Sardegna "argyròphleps". Quest'ultimo nome evoca scenari mediterranei occidentali dei primi secoli dell'età del Ferro, quando i fenici e i greci sono intensamente impegnati nella ricerca e nel commercio dei metalli e in particolare dell'argento.
MICENEI Bernardini mette in evidenza la forte presenza micena nell'isola, diffusa lungo le coste, ma anche nell'interno dove i commercianti greci si spinsero seguendo i corsi fluviali e i sentieri delle pianure. I principali documenti sono rappresentati dai frammenti di ceramica che consentono agli esperti, grazie all'analisi dei materiali, ai colori e allo stile, di rincondurre al luogo di provenienza. Così troviamo testimonianze a Cabras, nel golfo di Palmas, a Pula, Tertenia, Orosei e soprattutto a Sarroch dove lo scavo del nuraghe Antigori (alle spalle della Saras) ha restituito grande abbondanza di ceramica micenea. Ma anche a Monastir, Sanluri, Barumini e più all'intero a Orroli. «Tra il 1300 e il 1050 avanti Cristo lo spessore dei contatti con i naviganti di cultura micenea è molto chiaro» sostiene l'archeologo. I greci interagiscono vivacemente con le popolazioni locali. Lo studio di questi reperti rivela la profondità e l'estensione dei legami tra la Sardegna e il mondo orientale ellenico e, attraverso Cipro e Creta, i contatti con le civiltà delle attuali regioni di Turchia, Libano, Egitto, Libia e Tunisia. Dopo i micenei arrivarono i fenici. E gli etruschi del Tirreno. E dopo ancora i cartaginesi. In mezzo gli indigeni che si confrontarono, dialogarono, commerciarono, si unirono, si mischiarono. Sicuramente si combatterono. Di certo - spiega Paolo Bernardini - c'è che queste civiltà convissero in un intreccio di culture, tradizioni, attività artigianali e artistiche, come testimoniano le indagini stratigrafiche dei siti archeologici e i reperti trovati nelle tombe. La storia non va avanti a balzi e a compartimenti stagni, ma le epoche si succedono con continuità e le civiltà si confondono.
I NURAGICI «Per quanto l'origine della "società delle torri" sia ancora oggetto di accesi dibattiti, è ormai chiaro che il profilo socio-politico della Sardegna del XIV e del XIII secolo non ha niente da spartire con l'immagine convenzionale e artificiosa di comunità preistoriche prive di gerarchizzazione sociale e di controllo sui mezzi di produzione e destinate per questa loro natura di "buoni selvaggi" a divenire prede innocenti di evolute civiltà egee e orientali». Al contrario - è questo il convincimento di Bernardini - lo sviluppo delle grandi architetture e di una complessa esperienza tecnologica basata sulla lavorazione del bronzo parlano a favore di una società ben organizzata guidata da persone o gruppi leader che adottano sistemi di controllo del territorio, di gestione delle risorse e di divisione del lavoro. Sarà questa complessità e maturità della cultura autoctona ad attirare l'attenzione dei mercanti egeo-orientali.
Così l'isola assume uno spessore rilevante nell'ambito delle navigazioni micenee in Occidente, verso la Spagna e le coste francesi. Allo stesso tempo ceramiche prodotte nell'isola dagli abitanti nuragici circolano negli empori egei, in Sicilia, nelle Eolie, a Creta e Cipro. La Sardegna diventa il crocevia fondamentale del circuito tra Oriente e Occidente per la trasmissione e la lavorazione dei metalli, principale forma di commercio di quelle età
all'alba della storia.

Di CARLO FIGARI

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